Ronchi senza i legionari. Memorie di una città e di un nome che non la rappresenta
Nell’estate del 2013, mentre si avvicinavano le inevitabili celebrazioni per il centenario della prima guerra mondiale, a Ronchi dei Legionari era stata lanciata da Marco Barone una provocazione: cambiare il nome della cittadina isontina dedicandone il suffisso ai «partigiani» anziché ai protagonisti della cosiddetta “impresa di Fiume” del 1919.
Una provocazione fortunata e discussa che, nel centenario di questa “impresa”, ha avuto il merito di far emergere l’impossibile condivisione di memorie e ideali tra chi si ostina a difendere l’aggiunta al toponimo voluta in epoca fascista e le molte e i molti che vorrebbero finalmente riconosciuto l’apporto della cittadina alla lotta antifascista. Una provocazione che, a suo tempo, aveva portato alla revoca della cittadinanza onoraria della città a Benito Mussolini e ora conosce una nuova tappa con la pubblicazione del libro Ronchi dei partigiani per le Edizioni Kappa Vu, un volume che dà conto anche di come la discussione avviata con l’iniziale provocazione di Barone abbia fatto emergere una posizione maggiormente condivisa sulla nuova intitolazione, tanto che la proposta avanzata nelle pagine del libro è quella di chiamare la cittadina semplicemente Ronchi, con l’aggiunta di “città dei partigiani” o “città decorata al Valor Militare per la guerra di Liberazione”.
Un primo merito di questo volume collettaneo — basato sugli atti di un convegno del giugno 2014 dal titolo Di cos’è il nome un nome? La toponomastica a Ronchi e nella “Venezia Giulia” tra imposizione e mistificazione, ma che raccoglie anche contributi di altra origine — è di certo quello di spostare il focus dalla «questione fiumana», ampliando lo spettro della riflessione, come spiegato dal curatore Luca Meneghesso.
La vicenda dell’occupazione dannunziana di Fiume/Rijeka è trattata solo per sommi capi, pur ricostruendone senza esitazioni il carattere autoritario e nazionalista che portò anche alla distruzione della città, come emerge dalla mostra allestita a Fiume in apertura dell’anno che la vedrà capitale europea della cultura.
La stessa vicenda è anche al centro di recenti iniziative, locali e persino internazionali, dal carattere smaccatamente neo-irredentista e di molti tentativi di manipolazione storica: da un lato la fallimentare mostra Disobbedisco, curata dalla Fondazione Il Vittoriale degli italiani, con l’uso discutibile di fondi e spazi pubblici e l’installazione di una statua di D’Annunzio ancora a Trieste; dall’altro gesti provocatori che, se ce ne fosse ancora bisogno, dimostrano il totale provincialismo italiano nelle relazioni internazionali: mentre alcuni esaltati si recavano a Fiume per stendere un bandierone italiano sul castello di Tersatto/Tersat e celebrare così l’occupazione della città di cento anni prima, sedicenti “statisti” infilavano una concatenazione imbarazzante di uscite revansciste. Tra queste, spicca il caso di Antonio Tajani che, ancora nell’improbabile veste di presidente del Parlamento europeo cucitagli addosso dalle imprevedibili traiettorie del potere italiano, per poco non dichiarava guerra a Slovenia e Croazia senza nemmeno accorgersene.
Ma appunto, il mito della «Reggenza italiana del Carnaro» è un’evidente cortina fumogena, alimentata da alcuni diffusori di gas venefici che nebulizzano e spargono nell’aria esalazioni pestilenziali provenienti da interi sistemi fognari. Il Centro Studi Fiumani e in particolare la Fondazione Il Vittoriale degli italiani «interpreta la spedizione di D’Annunzio in chiave rivoluzionaria, addirittura libertaria, quindi una specie di anticipazione del 1968» o, secondo Claudia Salaris, perfino del movimento del ’77. Specchietti per le allodole che vengono sfruttati dalla galassia rossobruna e talvolta confondono anche ingenui militanti che continuano a non chiedersi «chi lo dice? E perché?».
Tra le tante amenità ricordiamo una citazione farlocca di Gramsci, che avrebbe appoggiato l’impresa, e la viralizzazione di una frase attribuita a Lenin, che avrebbe definito D’Annunzio «l’unico rivoluzionario che c’è in Italia». Sono tutte polpette avvelenate, e dimostrano solo la cattiva fede e/o la stolida ottusità di chi si ostina a usarle fuori contesto e a diffonderle senza criterio, con la consapevolezza o meno del proprio italocentrismo oltranzista. Si tratta di una narrazione tossica stratificata e che necessariamente andrà smontata, dedicandogli il giusto spazio, seguendo il metodo genealogico e risalendo così all’origine di questo vulnus alla verità storica sulla vicenda.
Tornando a Ronchi dei partigiani, non casualmente il volume si apre con l’autorevole intervento dello scrittore triestino Boris Pahor, il cui libro più noto (Necropoli) fu pubblicato per la prima volta in italiano proprio a Ronchi nel 1997 dal Consorzio Culturale del Monfalconese, a distanza di trent’anni dalla prima edizione in sloveno. Nella videointervista rilasciata al gruppo di Ronchi dei partigiani e intitolata «Dei legionari» non ha diritto di esistere, il grande vecchio triestino ha dichiarato anche: «Parlando di questa vicenda noi indirettamente parliamo del fascismo. Quel che oggi succede in Italia è che nessuno vuol parlarne. Neanche la sinistra, questo è il male. La sinistra cerca di fare tutto il possibile per evitare contrasti».
Tuttavia, il fulcro attorno al quale ruotano i contributi raccolti nel volume non è l’impresa, o meglio l’occupazione, di Fiume a opera di D’Annunzio, ma i nomi di Ronchi e del territorio di Monfalcone, frutto di un complesso intreccio di passaggi e sovrapposizioni in un territorio multietnico e meticcio fin dalle origini.
La critica all’aggiunta del suffisso «dei Legionari», avvenuta in epoca fascista contestualmente al conferimento della cittadinanza onoraria a Mussolini, viene contestata per due ordini di ragioni. Da una parte la constatazione che a Ronchi — «piccolo borgo inconsapevole», come lo stesso D’Annunzio ebbe a definire la cittadina — non risultano mai esserci stati legionari; dall’altra il dato di fatto dei molti che morirono per la loro partecipazione al movimento partigiano. Solo per contare i caduti, in quelle zone che tanto «inconsapevoli» poi non erano, una persona su cinquanta perse la vita per mano dei nazifascisti. L’altra ragione per rifiutare l’accostamento a un’impresa come quella fiumana, che fu violentemente nazionalista, è la storia multietnica di questo territorio. Lo dimostra bene Maurizio Puntin nel suo contributo sulla Ronchi plurilinguistica dei secoli passati: i nomi dei luoghi e delle famiglie portano tracce evidenti della contaminazione con le lingue slovena e friulana ma anche altre che arrivano, probabilmente, dalla più lontana Dalmazia e dai Balcani.
Sulla stessa scia si colloca anche l’intervento di Piero Purich — che all’epoca della partecipazione al convegno non aveva ancora ripreso il nome originale della sua famiglia e si chiamava ancora Purini –, una carrellata di mutamenti toponomastici lungo tutto lo stivale che dimostrano quanto con la ridenominazione si sia cercato di costruire un’identità. Costruzione che talvolta ha avuto risvolti comici, come nel caso di Incisa Scapaccino, in provincia di Asti, dedicata al carabiniere Giovanni Battista Scapaccino. Questi, opponendosi ai garibaldini che lottavano per l’unità d’Italia in Savoia, venne fucilato nel 1834 per essersi rifiutato di gridare «Viva la repubblica!» e aver esclamato invece «Viva il re!». La tradizione popolare, tuttavia, dice che Scapaccino era balbuziente e che, semplicemente, si inceppò alla prima sillaba.
Nelle zone dell’alto Adriatico si dispiegò pienamente lo spiccato antislavismo di D’Annunzio, il quale vide la sua naturale prosecuzione nell’operazione di cancellazione delle identità slovena e croata a partire dai nomi delle località ma anche da quelli personali. Su quest’ultimo aspetto, Miro Tasso, studioso dell’argomento, analizza i cambiamenti coatti dei cognomi sloveni nel territorio del monfalconese in epoca fascista; Claudio Cossu, invece, si concentra sui nomi delle vie ricostruendo la lunga querelle a cui diede vita l’intitolazione a Trieste di una scala al giornalista fascista Mario Granbassi (nato Niederkorn) e analizzando l’enigmatica figura di Giovanni Palatucci, vicecommissario aggiunto presso la Questura di Fiume a cui in Friuli Venezia Giulia sono state dedicate alcune vie: a Trieste (proprio nei pressi della Risiera di San Sabba), a Ronchi e a Grado. Palatucci, ci indica Cossu, è lontano dall’essere lo Schindler italiano, parrebbe anzi essere responsabile della deportazione ad Auschwitz di 412 ebrei fiumani.
Nelle pagine di Wu Ming 1 — in parte riprese nel suo libro Cent’anni a nordest. Viaggio tra i fantasmi della «guera granda» (Rizzoli, 2015) — viene esplorata la continuità tra prima guerra mondiale e fascismo, continuità sempre “sfumata” nel resto d’Italia ma che appare nettissima guardando entrambi gli eventi dall’angolatura delle terre nordorientali.
Ha a che fare con la “nazione” e “l’identità nazionale” imposte in questi luoghi anche una storia che comincia nel 1960: la storia di un monumento in ricordo di D’Annunzio inaugurato proprio quell’anno sul territorio di Monfalcone. Nell’opera di edificazione e successivamente di valorizzazione di questa stele, infatti, si incrociano militari, nazionalisti, esuli, neofascisti, democristiani, organizzazioni occulte, servizi segreti: tutte forze accomunate dalla volontà rivendicativa di trasformare il territorio del nordest in un luogo “nazionalizzato” dove «il paesaggio deve muovere al pensiero della patria e a chi “si è sacrificato” in suo nome dunque lo si copre di monumenti, sacrari, ossari, cimiteri, targhe, lapidi e nuovi toponimi». Queste forze sono le stesse che tuttora si riuniscono annualmente a celebrare l’anniversario della partenza da Ronchi di D’Annunzio e dei suoi. Ed è qui che vanno forse ricercate alcune reticenze odierne anche di parte della sinistra e dell’antifascismo istituzionale rispetto al discorso di Ronchi dei partigiani.
Ma cosa sappiamo dell’antifascismo di Ronchi? Ne parla l’operaio, partigiano e comunista Silvano Bacicchi.
Bacicchi era attivo nella brigata dedicata ai fratelli Fontanot, una brigata nata nel sud della Slovenia, dalla marcata natura internazionalista, costituita per la maggior parte da operai del cantiere della vicina Monfalcone saliti “sul monte” ancora con la tuta blu addosso, ma anche da sloveni, croati e perfino da anarchici catalani. La brigata prende il nome dai caduti partigiani Licio e Armido Fontanot, che a Ronchi si erano stabiliti dopo aver girato mezza Europa sempre in lotta contro il fascismo.
È essenziale — come ci ha ricordato Anna Di Gianantonio la sera della presentazione del libro, il 9 novembre 2019 — e fondamentale conservare il ricordo di chi combatté e non si arrese, di chi aveva altre idee rispetto a quelle dominanti, di chi morì ma non fu vittima, di chi non subì ma si oppose. È necessario rifiutare il “paradigma vittimario”, come nella stessa occasione Di Gianantonio ha definito la tendenza a concepire la storia come «un conflitto in cui ci sono carnefici e vittime, in cui l’attenzione viene spostata dalle dinamiche storico-politiche alla violenza, al dolore, alla morte e alla tortura inflitta dai forti sui deboli. […] Il paradigma vittimario unito alla battaglia culturale che omologa diversi sistemi politici sotto la categoria di totalitarismo, induce all’idea che nella storia affiorino ogni tanto delle personalità perverse e criminali che sottomettono le masse per imporre con la violenza la loro ideologia. Si tratta dei “mostri gemelli”, come Losurdo chiama l’interpretazione che si è imposta nel dopoguerra di Hitler e Stalin ed è sancita oggi con la risoluzione europea che equipara comunismo e nazismo. […] Questa memoria di chi non si arrende è una memoria scomoda, che esce dal conformismo e dal collaborazionismo. Sono persone che affrontano direttamente e con forza un sistema che sentono intollerabile».
Chi sono, allora, queste donne e questi uomini che si sono sottratte e sottratti al paradigma vittimario? Alla retorica dannunziana Luca Meneghesso contrappone le marce per cui Ronchi e la sua popolazione meriterebbero di essere ricordate. Colonne di uomini e donne attraversarono la cittadina isontina che nei giorni successivi all’8 settembre 1943 era diventata un vero crocevia: la prima è quella che vede operaie e operai del cantiere di Monfalcone salire sul Carso a costituire la Brigata Partigiana Proletaria; la seconda è quella delle internate e degli internati sloveni e croati nei campi di concentramento allestiti dallo stato italiano in varie parti della penisola e anche nelle vicine Visco, Gonars e Sdraussina. L’altra marcia che pressappoco negli stessi giorni attraversa Ronchi in senso opposto è quella dei militari italiani che dopo l’armistizio dell’8 settembre rientravano dalla campagna di occupazione dei Balcani in cui si erano macchiati di gravi delitti contro i civili. Tutte le persone che attraversarono Ronchi in quei giorni furono aiutate e sostenute.
L’importanza e l’attualità del libro consistono nel fornire nuove narrazioni della Resistenza in un periodo in cui stanno scomparendo uno a uno gli ultimi testimoni diretti di quella stagione di lotta, che localmente a Ronchi e nella Venezia Giulia ha avuto il chiaro carattere di una lotta di classe internazionalista.
Ronchi dei partigiani del resto non è l’unica proposta di nuove narrazioni e di nuove pratiche antifasciste al confine orientale che sono già in collegamento tra loro. Un’altra esperienza interessante, ad esempio, è quella di Zone libere partigiane che a giugno ha organizzato una festa della Repubblica Partigiana a Tramonti di sotto (PN), in quella che fu la Zona libera della Carnia, e attualmente sta promuovendo in collaborazione con l’ANPI dello spilimberghese (nella zona che dalla pianura friulana si protende verso le Alpi carniche) un progetto di mappatura e promozione dei sentieri e dei luoghi partigiani della zona. In Veneto, invece, è attivo Sentieri partigiani, un gruppo che unisce camminate e antifascismo con musica e racconti, dalla laguna alle montagne, sui luoghi della resistenza.
La straordinaria presenza di pubblico, il 9 novembre scorso, alla presentazione del volume dimostra quanto il senso di questo lavoro di ricerca e scrittura fosse necessario, soprattutto in un territorio che, umiliato e offeso dalla deriva fascio-leghista, in particolare nella vicina Monfalcone, ma anche in tutti i capoluoghi della regione, non dimentica le proprie radici e soprattutto non dimentica la cultura operaia che produsse un fenomeno di resistenza antifascista senza eguali per le sue caratteristiche transnazionali e meticce.
La sala era stracolma e attenta, come un anno fa la Casa delle Culture di Trieste quando il nostro collettivo aveva raccontato il disastro nazionalista della prima guerra mondiale, ribaltando e sgretolando la narrazione apologetica che Casa Pound stava tentando di far passare di quel massacro. E come, pochi giorni dopo, erano piene le strade di Trieste dei diecimila manifestanti che avevano scelto, malgrado le manovre della sinistra istituzionale cittadina, di contrastare con la presenza dei propri corpi quella di un migliaio di spettri fascisti raccattati in ogni angolo d’Italia dalla stessa Casa Pound per celebrare quel massacro.
Insomma, serate come quella di sabato 9 novembre riescono a far emergere una presenza sociale che rifiuta il vittimismo e la passività, una presenza che con curiosità e rabbia cerca di approfondire le vicende storiche così come i processi sociali, che ha molta più qualità e voglia di cambiamenti radicali e di protagonismo di quanto troppi commentatori le attribuiscano dall’alto dei canali televisivi nazionali e dalle colonne di blasonati quotidiani. Una presenza sociale che, nel caso di Ronchi, conserva e trasmette la memoria partigiana e operaia di quella città e finalmente vuole liberarsi dall’etichetta infame che la toponomastica fascista le ha appiccicato. E lo vuole fare guardando non al passato ma al futuro.